Basta tessere. Come aiutare davvero le persone.
Il governo sta riformando il RdC, ma il metodo è centralistico e inefficiente, spiega il direttore del Banco Alimentare Campania.
In questi giorni stiamo assistendo a scene o sceneggiate, più o meno prevedibili, dopo la decisione del Governo di mantenere fede a quanto annunciato in campagna elettorale: ridimensionare e rimodulare il Reddito di cittadinanza. Questa decisione porta con sé una novità ed una criticità.
La grande novità è che – verrebbe da dire, finalmente – un Governo mantiene fede a quanto promesso ai propri elettori. Non dico giustamente o ingiustamente, non è questa la sede per giudizi di merito; sottolineo solo l’aspetto della coerenza.
La seconda questione è una criticità che va evidenziata e, speriamo, verrà affrontata dal Governo. E riguarda una questione di metodo. Non è possibile che questo governo – alla stregua di quello che lo ha preceduto – utilizzi, per ridimensionare una misura fortemente criticata in campagna elettorale, anche con una qualche ragione oggettiva, lo stesso metodo centralista e statalista di quello scelto dal Governo precedente.
Dai 5 Stelle a Fratelli d’Italia non è possibile che i protagonisti del welfare in Italia restino l’Inps e le Poste italiane, confermando una visione statalista e centralista che riporta il welfare ad un impianto ottocentesco e fallimentare.
E proprio il Sussidiario mi sembrava la sede più opportuna per ospitare questa riflessione.
Da questo punto di vista occorrerebbe un cambio di passo e quindi di metodo. Una visione di welfare sussidiaria e di prossimità che valorizzi non solo i servizi sociali ma anche il grande patrimonio del nostro Paese, rappresentato dalla miriade di organizzazioni territoriali del Terzo settore più vicine ai cittadini bisognosi dove, spesso, le persone trovano non solo una risposta ai bisogni più prossimi, ma anche un luogo di accoglienza ed ascolto.
Di questo patrimonio, mi permetto di sottolineare, il Banco Alimentare è un esempio virtuoso e importante, non solo in Italia ma anche in Europa e nel mondo.
La decisione di questo Governo di lasciare invariato il modello di welfare centralista e statalista è assolutamente condannabile, se non nel merito, sicuramente nel metodo.
Prendiamo ad esempio la tessera alimentare “Dedicata a te”. Una tessera erogata non in virtù di reali necessità verificate dai servizi sociali ma in base a pre-requisiti reddituali (che, il più delle volte e soprattutto al Sud, rispecchiano poco la reale situazione delle persone) risultanti dall’Isee in possesso dell’Inps. Quest’ultimo, ormai divenuto il protagonista del welfare del nostro Paese, ha stilato le liste degli aventi diritto che sono state inviate per una pseudo-validazione agli enti locali. Miriadi di elenchi di aventi diritto. La maggior parte non riceveranno la tessera per mancanza di fondi. Aventi diritto. Appunto. In un Paese in cui spesso chi ha diritto non ha bisogno e, molte volte, chi ha bisogno non ha diritto. Una situazione che, soprattutto in Campania (dove opera il Banco che ho l’onore di dirigere) e in particolare nella città di Napoli, si sta facendo difficile e complicata, con migliaia di aventi diritto che non riceveranno nulla e che stanno presidiando e prendendo d’assalto – giustamente – non certo gli uffici romani del ministro, ma quelli dei poveri e pochi assistenti sociali.
Ad ogni assegnatario (non possiamo dire ad ogni avente diritto, visto che le due cose non coincidono) corrisponde un numero. Ad ogni numero una ricarica effettuata dalle Poste su una delle migliaia di tessere che dovranno essere ritirate. “Dedicata a te”, a un numero. Ricordo a me stesso il monito di Papa Francesco al trentennale della Fondazione Banco Alimentare: “Mi raccomando, non numeri ma persone”. A posto. Ma questo è il risultato di un centralismo che divora la società e riduce le persone a numeri.
Metteteci la scelta di un Isee innalzato a 15mila euro e la necessità di avere un nucleo familiare di almeno tre persone (che ha escluso anziani soli, coppie giovani e anziane in difficoltà, mamme divorziate con un figlio a carico, etc.) e si capisce perché questa misura ha finito per scontentare tutti. Quelli che l’hanno ricevuta perché si tratta di una misura una tantum (a settembre saremo punto e a capo) e tutti gli altri – la maggioranza – perché o ingiustamente esclusi o perché, pur avendo diritto, non hanno potuto riceverla essendo “fuori dalla lista principale”, cioè la lista finanziata con la somma messa a disposizione. In questo caso, aventi diritto ma esclusi per mancanza fondi. E non si trattava di pochi spiccioli. Parliamo di 500 milioni di euro, volati, in un caldo mese di agosto, nell’insoddisfazione di tutti e proprio quando il Governo si apprestava a “ridimensionare” il Rdc, almeno per gli occupabili.
Insomma, per usare un eufemismo, poteva andare decisamente meglio, per il metodo e la tempistica.
Mi permetto di aggiungere una riflessione in base alla quindicennale esperienza personale in un territorio difficile come la Campania. Ogni qual volta un’amministrazione ha deciso di dare un aiuto in denaro per fare la spesa ha ricevuto migliaia di richieste. Quando invece ha aperto le richieste per ricevere un aiuto alimentare, non in denaro, ma attraverso la distribuzione di pacchi contenenti generi di prima necessità, le domande si sono ridotte a poche centinaia. Questo perché distribuire beni e servizi è più utile, efficace, produttivo e vantaggioso rispetto alla elargizione dei soldi.
Se questi 500 milioni (o almeno una parte di questi) fossero stati usati per finanziare il Fondo nazionale indigenti per acquistare cibo da distribuire alle persone povere che ricevono un aiuto alimentare attraverso le oltre 8mila organizzazioni territoriali aiutate e servite in Italia dal Banco Alimentare e da altre organizzazioni capofila del nostro Paese, avremmo potuto sfamare milioni di persone e non una tantum ma ogni mese. Ma sopratutto milioni di persone realmente povere e realmente conosciute. Persone e non numeri di tessera. Persone che, oltre che un aiuto concreto, avrebbero trovato luoghi di accoglienza e ascolto, luoghi di educazione e amicizia.
Soldi che avrebbero potuto essere utilizzati per sviluppare un welfare davvero sussidiario e di prossimità, ma soprattutto efficiente e collaudato. In questo caso una reale sussidiarietà verticale – e non solo orizzontale di mutuo soccorso tra gli enti del terzo settore – che avrebbe sostenuto un modello di welfare realmente alternativo a quello miope fin qui messo in pratica dal Governo precedente.
Lo stesso discorso vale anche con la misura del Rdc. Non basta tagliare, come promesso. Occorre un cambio di passo, nel metodo. Chi decide se una famiglia ha davvero diritto ad un aiuto economico? Una carta rilasciata dall’Inps o una scelta ponderata dei servizi sociali di un comune? Non varrebbe la pena rivedere e ripensare il Rei, magari correggendolo e migliorandolo?
Lo dico perché conviviamo ogni giorno con una realtà in cui i dati statistici, se non fanno i conti con un fenomeno diffuso soprattutto al Sud e che si chiama lavoro nero, rischiano di non essere affatto descrittivi della situazione. Fiducia nei comuni, nelle organizzazioni territoriali di prossimità, vicine ai cittadini e che conoscono e sono in grado di valutare meglio la realtà e i bisogni. Più piccoli sono i comuni e più conosceranno da vicino le condizioni delle famiglie. E magari potranno realmente accompagnarle in percorsi personalizzati di inclusione. Si potranno, da un lato, concedere gli aiuti necessari e, dall’altro, intimare loro di far frequentare la scuola ai figli minori o controllare che chi percepisce l’aiuto economico non lasci soli a casa la moglie e i figli senza neanche il piatto da mettere in tavola o il latte da dare ai figli. Quante volte hanno chiesto al Banco di intervenire in questi casi e portare a casa di una famiglia il latte per i bambini? Nonostante uno dei genitori percepisse quasi mille euro di Rdc?
In un momento storico in cui le famiglie normali, la “gente-gente” fa fatica a vivere, le politiche di welfare diventano uno strumento essenziale e non più marginale o assistenziale per lo sviluppo e la ripresa di un Paese.
Per questo ci aspettiamo da questo Governo un cambio di passo, una inversione di tendenza non nel merito dei provvedimenti (per i quali la maggioranza degli italiani già si è espressa) ma nel metodo. Perché ogni provvedimento anche giusto nel merito potrebbe rivelarsi, come purtroppo sta accadendo, fallimentare nel metodo. E non mi riferisco solo all’sms, evidentemente.
Bisogna evitare di innescare una bomba ad orologeria che, qualora scoppiasse, non farebbe bene a nessuno. Non certo al governo ma neanche alla povera gente che, oltre che un aiuto materiale, chiede – prima di tutto – di non essere lasciata inerme e sola. Quella solitudine che, come diceva Madre Teresa, è la più grande delle povertà.